Bilinguismo
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Chi ha dato al bilinguismo una pessima reputazione

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Modelli del passato e pregiudizi del presente

Viviamo in un mondo super globalizzato, dove le notizie viaggiano distanze intercontinentali alla velocità di un click. Siamo sempre più inclusivi (almeno a parole). I nostri figli imparano ogni giorno gomito a gomito con bambini di etnie diverse, che hanno genitori provenienti da ogni angolo del globo. Ci si aspetterebbe che la realtà di un bambino cresciuto in un contesto bilingue sia naturale e perfino scontato. E invece non è, purtroppo, ancora così, e spesso il bilinguismo ha ancora una pessima reputazione. Ma su cosa si fonda questa diffidenza, e perché c’è ancora tanta impreparazione da parte di insegnanti ed educatori?

Quando nasce la brutta reputazione sul bilinguismo

Con l’avvento della rivoluzione industriale e l’inizio delle ondate di immigrati europei verso il continente americano, il bilinguismo dei bambini comincia a diventare una realtà molto diffusa in paesi come gli USA e il Canada. Purtroppo è da qui che nascono anche la maggior parte dei pregiudizi che ancora oggi ci affliggono. Per tutta la prima metà del ‘900 fioccano studi scientifici che identificano nel bilinguismo la causa di deficit intellettivi e di linguaggio. Bisogna aspettare il 1962 e il famoso studio The relation of bilingualism to intelligence di Elisabeth Pearl e Wallace Lambert per dare una ripulita alla reputazione del bilinguismo. Questi due studiosi sono i primi a mettere in evidenza come tutti gli studi che imputavano al bilinguismo ritardi intellettivi e di linguaggio fossero inattendibili.

I risultati scolastici e la padronanza della lingua dei figli degli immigrati, provenienti dalle classi sociali più povere, venivano confrontati con quelle di bambini monolingue provenienti da classi sociali più avvantaggiate. Inoltre tutti i test si svolgevano sistematicamente in quella che per i bambini bilingui era la seconda lingua. Della serie: ti piace vincere facile!!!!

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Quando i pregiudizi sono duri a morire

A 60 anni dagli studi di Pearl e Lambert, e a oltre 20 anni dalla diffusione della risonanza magnetica cerebrale che ha evidenziato le grandi potenzialità del cervello bilingue, si crederebbe che il bilinguismo venga finalmente considerato come una grande opportunità per i bambini, e cominci finalmente a godere di una buona reputazione. Eppure i pregiudizi sul bilinguismo sono incredibilmente solidi e difficilissimi da scalfire. Io stessa ho combattuto anni con una persona di famiglia fermamente convinta che uno dei miei figli avesse un ritardo del linguaggio dovuto al fatto che gli parlavo in inglese.

Anche dove meno te l’aspetti

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Quel che è peggio è che il posto dove questi pregiudizi sembrano essere più granitici è quello che dovrebbe sostenere tutte le opportunità di conoscenza e di sapere per un pieno sviluppo delle potenzialità dell’individuo, ovvero la scuola. Molte famiglie vengono convinte ad abbandonare l’uso della seconda lingua dagli insegnanti, convinti che qualsiasi problematica, di apprendimento o comportamentale, sia da attribuire al bilinguismo. Qualcuno ha cercato di dissuadermi dal proseguire con un’educazione bilingue, portando a riprova delle sue affermazioni un video, niente popo di meno, della famosa pedagogista Daniela Lucangeli.

Non potevo crederci, ma purtroppo era vero. Anche una persona che considero per molti versi un vero e proprio mito della pedagogia moderna non è immune dai pregiudizi sul bilinguismo. Guardate questo video a partire dal minuto 4.23: l’intervistatrice riporta la domanda di una mamma che chiede: “Mia figlia è bilingue ed ha un disturbo dell’apprendimento. Devo concentrarmi su una sola lingua?”.

Contro ogni evidenza scientifica la Lucangeli afferma che, anche in caso di bilinguismo coltivato fin dalla nascita, “il sistema cognitivo è affaticato dalla gestione di diverse fonologie […] e diversi sistemi grammaticali. Quindi quando siamo di fronte ad un bilinguismo (NDR e ad un disturbo dell’apprendimento) è opportuno dedicare attenzione alla lingua usata nel processo scolare”. Considerato che la maggior parte degli adulti italiani è bilingue (italiano/dialetto), e che oltre il 50% della popolazione mondiale è bilingue … non ci vedo particolarmente affaticati!

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Ma non è stato sempre così: essere plurilingui nel passato

Quando la gente nasceva e moriva nello stesso posto, solo i nobili e gli statisti avevano il privilegio di parlare più lingue e visitare paesi diversi. A quel tempo le lingue non venivano insegnate: i piccoli rampolli venivano esposti fin dalla nascita a più lingue, grazie ad istitutori madrelingua tedeschi, francesi, inglesi, ecc.

E se il bilinguismo non è sempre stato sinonimo di “affaticamento”, o assimilato direttamente a un disturbo dell’apprendimento, vuol dire che oggi possiamo veramente fare di meglio! Il mio appello è pertanto a tutte quelle figure che hanno responsabilità nell’ambito della formazione e dell’educazione. Convincere una famiglia ad abbandonare la seconda lingua forse sembra la scorciatoia per risolvere un qualsiasi problema di apprendimento. Sappiate che il problema, che non dipende dal bilinguismo, ci sarebbe anche in un contesto monolingue e abbandonare la ricchezza del bilinguismo non lo risolverà. Al contrario, state privando un bambino di un dono inestimabile, per il suo cervello e per il suo futuro!

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